Quante scarpe cambiamo ogni anno? Quanti telefonini, computer, mobili? La frenesia con la quale si acquistano, si usurano e si buttano gli oggetti è nota. Viviamo in un contesto che ci impone l’acquisto compulsivo, un universo che proietta le ambizioni umane e i desideri insoddisfatti nella logica del consumismo, spingendoci ad investire il tempo e le energie prioritariamente all’acquisto. Si tratta di una logica complessa che si esercita ormai da più di un secolo, e che prevede la ciclica creazione e distruzione di desideri: la pubblicità ci suggerisce desideri sempre nuovi e principalmente inutili, desideri che solo l’acquisto dell’oggetto in questione potrà appagare, salvo poi disilludere l’appagamento nell’istante in cui l’oggetto si mostra fragile e limitato, o si rompe o, peggio ancora, viene soppiantato da un modello nuovo. Ecco che la pubblicità non crea soltanto i desideri, ma li rinnova, costringendoci a vivere in un costante in-appagamento, in una costante ricerca del benessere. È proprio sulla non-soddisfazione di un bisogno che si regge l’economia mondiale. Se prendessimo coscienza che quanto ci occorre veramente per vivere, e vivere bene, lo abbiamo a portata di mano, che gli oggetti indispensabili alla vita sono semplici e facilmente procurabili, l’intera economia mondiale sarebbe costretta a rivedersi e riformularsi. La maggior parte degli oggetti cui ambiamo sono inutili e servono a soddisfare bisogni non nostri, desideri il cui appagamento ci lascia presagire un benessere sociale e psichico, trasferendo e banalizzando le ambizioni più nobili dell’uomo in un primordiale istinto di dominio materiale. Ma siamo sicuri di avere bisogno di tutto questo?
Guardiamo alle nostre città, che sempre più diventano dei dormitori dai quali dobbiamo spostarci per lavorare, dei luoghi i cui centri storici si stanno trasformando in delle vetrine con marchi che contribuiscono ad omologare i prospetti delle vie. Ci vogliono fare credere che le nostre città siano vivibili, invitandoci ad andare per le vie del centro a fare shopping, ognuno col suo frenetico e solitario vagare. Può sembrare strano, ma anche in pieno fascismo le città erano più vivibili di adesso! Negli anni ’30, a Catania, ragazzi e ragazze passeggiavano liberamente per le vie del centro solo per il piacere di fare due passi insieme, magari mangiando il tanto ambito “cono gelato”; nei giorni di festa si pattinava per la centralissima Via Sant’Euplio come si trattasse di un parco! Provate a farlo adesso, tra macchine in terza fila, autobus e motorini. Ci vogliono fare credere che l’attuale città sia vivibile. Ma che concetto hanno gli amministratori della vivibilità?
Per me vivibile è un luogo che mi offre quel tanto che mi basta per vivere dignitosamente, una casa, del verde pubblico, un lavoro, la sicurezza per le strade e dentro le case, gli spazi per distrarsi e incontrarsi. Non è facile ma non è nemmeno un’utopia: si tratta di riformulare radicalmente il nostro concetto di città, ma prima ancora di risalire alla radice dei nostri desideri e delle nostre necessità, capire cosa ci serve davvero e cosa no.
Non è un caso se le nostre città si stiano svuotando di artigiani. Recente è la notizia secondo la quale il 40% delle imprese artigiane siciliane sarebbe a rischio di crollo. Di intagliatori del legno, ad esempio, veri e propri artisti, ne saranno rimasti tre o quattro nell’intera Catania, relegati nei quartieri più antichi come San Cristoforo. Nessuno pensa più a loro, e alla loro morte nemmeno i loro figli proseguiranno quel mestiere ingrato che richiede impegno dando in cambio solo magre soddisfazioni. La società di oggi ci impone ritmi frenetici e ingenti guadagni per mantenere quegli stili di vita “adatti” a sentirci “normali”, quei guadagni che l’artigianato oggi fatica a garantire, sempre più schiacciato dalle concorrenze dei grossi centri commerciali. Proprio la provincia di Catania ha visto un pullulare esorbitante (e aggiungerei inutile) di questi casermoni dove troviamo di tutto senza capire nulla. Occorre necessariamente invertire la rotta. Perché non muoverci controcorrente potenziando l’artigianato locale e producendo da noi quello che possiamo costruire? Perché non invitare la gente a degli acquisti più oculati di prodotti di artigianato non viziati da un’obsolescenza programmata? Piuttosto che attendere inermi l’arrivo di fantomatici fondi, bisogna ridare il giusto senso agli oggetti e alle nostre ambizioni, puntando sui giovani e sulla loro istruzione.
A questo proposito, noto come oggi non esista più il ragazzo di bottega, un po’ perché i ragazzini hanno altro a cui pensare, tra facebook e telefonini, un po’ perché oggi si parlerebbe di “sfruttamento minorile”. Eppure quanti degli adulti attuali si sono formati all’interno delle botteghe, quanti hanno acquisito in esse il senso del lavoro, del sacrificio, dell’impegno? Io sogno una riforma della scuola che preveda un’educazione diversa, nella quale si riesca ad affiancare grammatica italiana e dialettale, storia locale e nazionale, educazione civica e antimafia (come recentemente proposto dal M5S all’ARS) e infine educazione ai lavori manuali, all’artigianato. Tutto questo, non per rimembrare nostalgicamente le usanze del passato, ma per rilanciare l’economia senza dimenticare le nostre radici, per rimodulare le nostre città affinché tornino ad essere a misura d’uomo e infine, cosa più importante, per risvegliare le coscienze intorpidite dei ragazzi e dare loro il senso dell’impegno e del sacrificio.
9 commenti
che bello….sempre con voi.
Questo articolo mi piace molto. Complimenti all’autore.
Se la politica del M5S fosse così chiara, sarei a Vostro favore.
Buon lavoro.
Il fatto è che la parola dignitosamente sembra non far parte della nostra società, perchè quel poco che cerchiamo bisogna pagarlo a caro prezzo, sembra che le cose che sarebbero ovvie sono diventate qualcosa di inarrivabile.
l’artigiano è in via d’estinzione perche il lavoro manuale è considerato come un fallimento, perche se si fa qualcosa che ci si sporca si è messo da parte. Se poi un artigiano vorrebbe avere un aiutante ( il ragazzo di bottega) la nasce il problema, che con le nostre leggi si fa presto a passare da onesto cittadino a un quasi delinquente, la soluzione è meglio da soli, quando tutti ci rendiamo conto che questi lavori non ci sarà più nessuno a farli penso che sarà trppo tardi. Bisogna ridare la giusta dignità al lavoro di tutti gli artigiani e non perseguitarli come i peggiori delinquenti.
Belle parole e bellisssimi obbiettivi, non concordo però sul fatt che i ragazzi non vanno più a bottega ad imparare un mestiere, negli ultimi anni sono stati sottopagati e sfruttati e diciamo che hanno perso la voglia di fare…
Una generazione quella deglia ttuali sessantenni che non ha investito per niente sui giovani ma li ha sempre trattati come schiavi da sfruttare, la classica imprenditoria media itaiana.
Paghiamoli e stimoliamoli…vedrete come i giovani torneranno a fare gli artigiani con passione!
Trovo queste considerazioni MOLTO EDUCATIVE; spero che possano contribuire nella ricerca di riflessioni per il recupero di un etica quasi del tutto smarrita. Complimenti.
Anch’io sono felice di leggere ” buon senso ” e voglia di un futuro sano che parte dal passato. Altro che anti politica.
Caro Riccardo, sono d’accordo con te sulla “riforma della scuola”. Di più, ti dico: improrogabile diventa più che ridare un senso agli “oggetti” , ridare un senso alla “parola”. Vuoi a quella della grammatica italiana, come dici tu, vuoi a quella dialettale. Il significato delle parole è l’elemento a partire dal quale costruiamo il significato da dare alla nostra vita. Io sono convinto che il linguaggio non crea il mondo però lo fa “essere”. Di conseguenza , se lavoriamo per migliorare il nostro “linguaggio” , lavoreremo per rendere migliore la nostra vita.
Ciao Pino, anch’io sono dell’idea che la questione del linguaggio sia cruciale. L’appiattimento dei plurimi livelli linguistici è una strategia prettamente capitalistica sfruttata dalle aziende ai fini pubblicitari. Oggi parliamo tutti una lingua dal significato “unico”, le stesse nostre parole sono quelle sentite alla radio, alla tv, lette su internet. I vocaboli si riempiono di un senso univoco che è quello che il commercio impone loro. Se è vero, come dici, che il linguaggio “non crea ma fa essere” il mondo, il nostro universo tende sempre più a impoverirsi di significati, perché il linguaggio esprime le sfumature delle cose che altrimenti passerebbero inosservate. Purtroppo non dico nulla di nuovo. La denuncia è stata espressa magistralmente già negli anni ’60 da Herbert Marcuse nel suo “L’uomo a una dimensione”.
Caro Riccardo, sono d’accordo con te sulla “riforma della scuola”. Di più, ti dico: improrogabile diventa più che ridare un senso agli “oggetti” , ridare un senso alla “parola”. Vuoi a quella della grammatica italiana, come dici tu, vuoi a quella dialettale. Il significato delle parole è l’elemento a partire dal quale costruiamo il significato da dare alla nostra vita. Io sono convinto che il linguaggio non crea il mondo però lo fa “essere”. Di conseguenza , se lavoriamo per migliorare il nostro “linguaggio” , lavoreremo per rendere migliore la nostra vita.