Disoccupazione e precarietà hanno lo stesso significato in Italia come nel resto dell’Europa?
Interessante domanda alla quale si può rispondere con un fermo e deciso NO! Un “no” che trae le sue radici dalla presenza (nel resto dell’Europa, ad esclusione di Italia, Grecia ed Ungheria) di uno strano fenomeno chiamato reddito minimo di cittadinanza. In molti probabilmente non ne hanno mai sentito parlare o lo confondono con l’indennità di disoccupazione che, come chiariremo, è una cosa molto differente.
Prima di andare nello specifico e capire come, negli altri paesi europei, i cittadini siano aiutati dallo Stato per vivere dignitosamente, chiariamo un attimo alcuni concetti fondamentali: mentre l’indennità di disoccupazione riguarda solo le persone che sono state licenziate o che hanno terminato un contratto, garantendo loro il 60% della retribuzione lorda mensile per i primi 6 mesi, il 50% per il settimo e l’ottavo mese e il 40% per i mesi successivi; il reddito minimo di cittadinanza riguarda coloro che non lavorano e che ovviamente sono alla ricerca di un lavoro, vale (è importante sottolinearlo) anche per coloro che non hanno mai lavorato, è un sussidio illimitato nel tempo e cessa con il cessare della disoccupazione. Nel resto dell’Europa, addirittura, lo Stato interviene anche nell’integrazione di reddito per chi guadagna poco.
Nel dicembre 2011 la Ministra Fornero, risponde ad una domanda circa le misure che il Governo intende attuare per sconfiggere la povertà dilagante, e afferma che il reddito minimo garantito “rappresenta una direzione verso la quale il Governo lavorerà”, anche in virtù delle continue pressioni europee che chiedono, da più di 20 anni, all’Italia di adeguarsi all’introduzione di un reddito minimo di cittadinanza.
Per essere precisi: nella lettera della BCE all’Italia, datata 5 agosto 2011, viene espressamente richiesto di adottare “una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione“, seguono poi le 39 domande inviate da Bruxelles al Ministro Tremonti (il 4 novembre 2011). Alla domanda n° 21 in particolare si legge “Nella dichiarazione del summit dei paesi dell’euro del 26 ottobre 2011 si parla espressamente di impegno […] a rivedere il sistema dei sussidi di disoccupazione oggi molto frammentario entro la fine del 2011, prendendo in considerazione i vincoli di budget, ma di questo non si fa parola nella lettera. Quali intenzioni ha dunque il governo italiano a questo proposito?”
A questo punto c’è da chiedersi come sia possibile che nel Marzo 2012 la Fornero lanci questa dichiarazione: “L’Italia è un Paese ricco di contraddizioni, che ha il sole per 9 mesi l’anno e con un reddito base la gente si adagerebbe, si siederebbe e mangerebbe pasta al pomodoro”. Come si concilia questa dichiarazione con tutti i discorsi sulla necessità di adeguarsi al modello Europeo? Non è forse vero che l’introduzione di un reddito di cittadinanza è il fondamento del welfare state europeo, un diritto fondamentale per ogni cittadino europeo? Perché la nostra classe politica si ostina, con l’ausilio dei media, a lasciare in ombra un tale argomento, facendo in modo che la popolazione italiana non si renda conto che ciò che veramente manca nel nostro paese è quella sicurezza economica che deve (per diritto europeo) provenire dai sussidi?
L’introduzione del reddito di cittadinanza in Italia comporterebbe innanzi tutto il riconoscimento di un diritto fondamentale, alla base del modello europeo, tanto decantato dalla nostra classe politica ma attuato in maniera disattenta. Con il reddito di cittadinanza si farebbero dei passi da gigante verso quella giustizia sociale (tale reddito è un diritto soggettivo esigibile, ovvero, non occorre alcun tipo di mediazione per ottenerlo, lo Stato lo eroga automaticamente a chi ne ha diritto) che in Italia è sempre stata una chimera. Si avrebbe la possibilità di attuare una vera e propria flessibilità del lavoro, dove chiunque possa sperimentare le proprie idee e scegliersi il proprio lavoro.
In quest’ottica il lavoro non sarebbe più una merce di scambio per il voto, ma diverrebbe conforme alle aspirazioni e alle qualifiche del lavoratore. Per la classe politica risulterebbe molto più difficile ottenere consenso senza il ricatto primario dell’esistenza (il lavoro, appunto). Quindi, l’introduzione del reddito minimo consentirebbe a chiunque di guardare al lavoro da un punto di vista più legato alla scelta e non alla mera necessità del pane quotidiano. Con la possibilità data dallo Stato di una continuità di reddito la società italiana rifiorirebbe, si ridurrebbe il divario tra ricchi e poveri (con la relativa sparizione della classe media), l’economia diventerebbe virale, i soldi ricomincerebbero a circolare, l’opinione pubblica cambierebbe atteggiamento nei confronti della vita e sulla percezione del futuro. Si creerebbe una paese di gente serena, che ha la tranquillità di sperimentare le proprie idee di futuro e che, soprattutto, vede un futuro.
Come afferma Giovanni Perazzoli “In Occidente crescono le società giuste. Le società dove esistono giustizia e libertà. Dove esiste il reddito minimo garantito la società si muove dal basso, conta la società civile, contano gli individui; la scelta democratica è meno inquinata dal bisogno. Se le persone non sono libere dai bisogni primari di sussistenza non possono dire no. Saranno costrette a far parte di un sistema piramidale e autoritario, dove il merito e l’iniziativa originale tenderanno a scomparire”.
Dove trovare i soldi per attuare tutto questo?
Innanzi tutto riducendo le pensioni “d’oro” e tutti i privilegi della casta (stiamo parlando di almeno 220 milioni di euro), si potrebbe poi passare a tagliare le spese militari (che violano, tra l’altro, l’art. 11 della nostra Costituzione che ripudia la guerra) ad esempio, evitando che l’Italia acquisti i 90 aerei da guerra F35, così da risparmiare 2 miliardi di euro l’anno per vent’anni. C’è poi tutto quel risparmio che deriverebbe dall’abolizione delle Province. Insomma, il dove tagliare non manca!
L’Italia, introducendo il reddito minimo, risparmierebbe sulla spesa pubblica, in quanto semplificherebbe la giungla degli ammortizzatori sociali, abolirebbe tutti gli interventi di solidarietà a carico degli Enti Locali e tutti gli interventi di politica attiva del lavoro a livello Regionale. Inoltre, consentirebbe di attuare il welfare in maniera non clientelare, garantendo gli stessi diritti a tutti, a prescindere dall’appartenenza a questo o a quel gruppo sindacale, sociale o politico.
Di seguito alcuni cenni sul reddito minimo garantito in alcuni paesi europei:
- In Gran Bretagna, a partire dai 18 anni, chi non ha un lavoro percepisce l’income-based jobseeker’s allowance, pari a circa 350 euro al mese.
- In Germania, a partire dal 2005 (prima era ancora più generosa), tra i 16 e i 65 anni chi ne ha diritto percepisce l’arbeitslosengeld ovvero, 345 euro al mese più i costi dell’affitto e del riscaldamento. In più ci sono tutta una serie di integrazioni per le coppie con figli.
- In Francia compiuti i 25 anni (prima dei 25 se si hanno figli) si ha diritto al revenu minimun d’insertion (rmi) di 425,40 euro al mese.
- In Belgio si chiama minimax e ammonta a 650 euro al mese.
- In Lussemburgo il revenue minimum guaranti. È definito legge universale, un riconoscimento individuale “fino al raggiungimento di una migliore condizione personale”. L’importo è di 1.100 euro mensili.
- In Norvegia c’è lo Stonad til livsopphold, il “reddito di esistenza”, con un importo mensile di oltre 500 euro e la copertura delle spese dell’alloggio ed elettricità.
Chi lo sa, magari in Italia il problema non è di natura politica o sociale, è un problema di dieta… tutta colpa di quella pasta al pomodoro!
Manuela Acqua – M5S Enna
foto di Niccolò Caranti